Taxi Teheran, la recensione
Un taxi come tanti, all’apparenza, che si muove incerto per le strade della città affollata. Insegue come può la sua strada, meglio sarebbe dire le sue strade,che non son facili a trovarsi,come si può immaginare. Certo è facile perdonare l’imperizia e lo scarso senso dell’orientamento del suo improbabile conducente, una volta svelato l’arcano. Taxi Teheran incanta la giuria presieduta da Darren Aronofsky e vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2015, viene venduto in 30 paesi, fa strage di incassi in Francia (per un film d’autore) e ora sbarca anche da noi: riuscirà a bissare il successo transalpino? Non è dato saperlo, ma è possibile ragionare sul film e sui motivi d’interesse (e sono tanti) che quest’opera offre allo spettatore.
Un caloroso e malinconico intersecarsi delle vie dell’arte con le vie della vita, l’ultimo film di Jafar Panahi colpisce per la sua forza dimessa, dignitosa, e amaramente sovversiva. 45 anni, cineasta celebrato in patria e all’estero, nel 2009 entra in rotta di collisione col regime teocratico iraniano. Il conto da pagare è salatissimo: 86 e più giorni di carcere, il divieto di lasciare il paese, di filmare, sceneggiare, concedere interviste. La forza delle restrizioni può tradursi in un cancro soffocante, o nello stimolo a superare se stessi, dice il regista.
Jafar Panahi, icona suo malgrado della libertà d’espressione, sceglie la strada della beffa clandestina. Sale a bordo del taxi, posiziona la macchina da presa sul cruscotto (e da qui non la muove salvo sporadici inserti dalla camera di un cellulare), si fa protagonista del suo stesso cinema, pattuglia Teheran alla ricerca di un riflesso dell’Iran di oggi. Insegnanti, ladri, individui dediti al contrabbando di Woody Allen, perché anche così si fa cultura, e tanti altri. Un umanità saporita e complessa, che ci viene restituita con rispetto ed integrità, impegnata com’è a vivere e sopravvivere in un mondo in cui il riso è il parente più stretto del pianto, e in cui la mistificazione autoritaria si mostra nel suo aspetto meno approfondito ma anche più veritiero: quello della farsa grottesca.
Fate attenzione al miglior segmento del film: Panahi ospita sul suo taxi la scatenata nipotina (Hana Saeidi vincitrice a Berlino del Premio Fipresci), indignata mortalmente all’idea di doversi spostare in una vettura tanto sciatta perché la cosa nuoce alla sua reputazione. Regista in erba, illustra al celebre zio le condizioni per la realizzazione di un film diciamo così “producibile” nell’Iran di oggi, cioè approvato dalle autorità. Una sequela di limitazioni piuttosto sconcertante e totalmente ridicola. La risata ha una forza politica liberatoria e sovversiva, questo al cinema come nella vita; Chaplin lo sapeva, Panahi lo sa. Si può ridere guardando Taxi Teheran? Si ride volendo, e si resta sgomenti. Si ride di ciò che sgomenta e viceversa. Si ride poco per l’assenza di titoli di coda, ma queste sono le regole del gioco: se il film non piace alle autorità, la ricompensa è l’anonimato. La realtà è complessa, e non solo a Teheran. Accostarci a una realtà tanto lontana dalla nostra ci concede il lusso di imparare qualcosa di importante su di noi, col privilegio e l’illusione della distanza. Questa una delle sfide che Jafar Panahi lancia. Sta allo spettatore raccoglierla.
Francesco Costantini
PRO | CONTRO |
|
|
Lascia un commento