Magic in the Moonlight, la recensione
Arguzia, atmosfere vintage e un pizzico di magia sono gli ingredienti vincenti della nuova, deliziosa pellicola firmata Woody Allen e presentata in anteprima al Festival del Cinema di Torino. L’instancabile regista newyorchese, con Magic in the Moonlight, trasporta il suo fedelissimo pubblico indietro nel tempo, nell’affascinante e suggestiva cornice della Provenza degli ultimi Anni Venti, affidando il compito di raccontare un’avventura semplice e sfiziosa a due protagonisti d’eccezione: il Premio Oscar Colin Firth e la giovane quanto inarrestabile Emma Stone.
Stanley Crawford (Firth), alias Wei Ling Soo, è un abile prestigiatore nonché un gentiluomo inglese cinico e vagamente misantropo. La sua routine subirà una decisa svolta quando un vecchio amico lo pregherà di seguirlo sulla riviera francese per aiutarlo a smascherare Sophie Baker (Stone), sedicente sensitiva ospite dei Catledge, facoltosa famiglia americana. Stanley, pratico di ciarlatani, accetterà la sfida e raggiungerà la combriccola in vacanza sulla Costa Azzurra. L’impresa, tuttavia, si rivelerà più ardua del previsto perché Sophie, oltre a essere straordinariamente bella, sembra davvero non celare alcun trucco dietro le proprie capacità soprannaturali, al punto da far vacillare seriamente il ferreo razionalismo di Stanley…
Woody punta su due dei suoi amori dichiarati – la Francia e le ambientazioni rétro – e fa centro, confezionando un piccolo gioiello a cui non manca quasi nulla: personaggi ben scritti, ottime interpretazioni, dialoghi smaglianti e un intreccio accattivante. Tornano inossidabili punti fermi della sua filmografia, prevalentemente per quanto riguarda le tematiche affrontate: l’importanza delle illusioni, che rendono più lieta e sopportabile la nostra vana esistenza; l’amore, dolce chimera per antonomasia; la complessità dei rapporti interpersonali, mossi da impenetrabili sentimenti più o meno positivi. L’efficacia del discorso sulle lusinghe degli inganni ai quali la nostra quotidianità ci espone di continuo è coadiuvata dal ricorso a un’altra linea tematica preponderante: la magia. Questo connubio avvicina Magic in the Moonlight, per impostazione concettuale, a un’opera tra le meno famose firmate da Woody Allen ma tra le più interessanti dal punto di vista sperimentale. Si allude a Ombre e Nebbia, citato, forse consapevolmente, anche nell’evocativa sequenza in cui Sophie e Stanley si ritrovano a fissare il firmamento, indecifrabile e mozzafiato, interrogandosi sui misteri della vita; proprio come, nel film del 1991, fecero Kleinman (Woody Allen) e Irmy (Mia Farrow).
La figura del prestigiatore più o meno ciarlatano, con un debole per nome d’arte e look esotico, ricorre, allo stesso modo, in più di un titolo alleniano; la sequenza iniziale di Magic in the Moonlight, in cui Wei Ling Soon si cimenta in trucchi grandiosi, riporterà alla mente degli affezionati tanto le conturbanti malie del mago Voltan (La Maledizione dello Scorpione di Giada) che i trucchi da due soldi dello strampalato Splendini (Scoop). Gli incorregibili detrattori sosterranno che Woody si ripete, e continua a farlo ormai da tempo; una componente familiare, come si accennava, sicuramente permea la pellicola in questione, ma ciò non significa che questa non sia dotata anche di una interessante dose di innovazione e di caratteristiche interessanti. La ventata di novità più evidente è incarnata dai due attori protagonisti, esordienti nella filmografia di Allen. Colin Firth, con la sua performance sorniona e nervosa, è in ottima forma e conquisterà sin dalle prime scene. Emma Stone, copricapi stravaganti e adorabili abitini d’epoca, si difende a sua volta con grinta, dando vita con disinvoltura a un ritratto femminile spiritoso e autentico, con cui è facile entrare in sintonia. La vera rivelazione della pellicola, tuttavia, è la meravigliosa Eileen Atkins, strepitosa nel ruolo dell’eccentrica Zia Vanessa, che regala al pubblico almeno un paio di sequenze assolutamente memorabili.
Punto di forza indiscussi del film, sono senza dubbio i dialoghi effervescenti e serrati, nei quali Woody è da sempre maestro, che catturano, sorprendono e intrattengono con brio e sagacia per tutta la durata. La girandola di battute e botta e risposta mai scontati, i riferimenti intellettuali ma alla portata di tutti – che tirano in ballo i grandi filosofi, l’esistenza di Dio, le ossessioni personali – rende più gustosa e appassionante l’eterna dicotomia tra ragione e (necessaria) fuga dalla realtà. L’attenzione al dettaglio nella resa del contesto temporale, inoltre, non potrà non saltare all’occhio. Tra costumi incantevoli e panorami da sogno, fotografati con morbida ed evocativa lucentezza, c’è di che appagare la vista e il cuore. A onor del vero, qualche lungaggine e tempo morto di troppo, sebbene funzionali alla concessione di un ampio respiro alle location in cui la vicenda si dipana, rischiano di rendere la visione a tratti faticosa. Tuttavia, questo è un piccolo prezzo da pagare in confronto ai molti pregi che il film offre.
In conclusione, Magic in the Moonlight è un prodotto leggero e di qualità, ben interpretato e forte del graffio dialogico del miglior Woody Allen, ma anche poetico e romantico come solo il nostro cineasta sa essere. Il film è dal 4 dicembre nelle nostre sale grazie a Warner Bros.
Chiara Carnà
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