Io sono Ironman: intervista all’attore e campione di arti marziali Claudio Del Falco
In occasione dell’uscita dell’action/thriller Assassin Club, diretto da Camille Delamarre e distribuito da Eagle Pictures in accordo con Paramount Pictures, abbiamo incontrato Claudio Del Falco che nel film interpreta Ryder, un sicario incaricato di uccidere il suo collega Morgan, che ha il volto della star di G.I. Joe Henry Golding. Campione del mondo di karate ed europeo di kickboxing, Del Falco conduce parallelamente alla sua attività sportiva anche quella da attore per il cinema, iniziando da ragazzo sui set di Tinto Brass e Marco Risi fino ad affermarsi nel cinema d’azione come uno dei maggiori talenti italiani in questo genere. Ripercorriamo insieme a Claudio Del Falco la sua carriera.
Ciao Claudio, tu hai dedicato buona parte della tua vita allo sport, alle arti marziali, diventando un campione internazionale di kickboxing. Ma un’altra tua grande passione, che poi è diventata un lavoro, è il cinema. Mi puoi raccontare in che modo ti sei diviso tra questi due ambienti apparentemente così diversi eppure molto vicini?
Quando ero piccolo avevo due sogni: il cinema e lo sport. Per me il massimo era diventare un campione dello sport e un attore di film d’azione. Ho cercato di fare tutte e due le cose quindi ho messo lo sport nel cinema. Lo sport l’ho cominciato prestissimo, le arti marziali le ho cominciate a dieci anni e tutt’ora le pratico, tanto che sono campione del mondo attuale da master; ho vinto il titolo europeo di kickboxing nel 1992 e non ho mai smesso, mi sono sempre allenato e ho fatto questo genere di film per scelta. Cinema e arti marziali vanno d’accordissimo: il protagonista di un film d’azione deve conoscere le arti marziali, altrimenti si vede che lo stile e il modo con cui colpisce gli avversari non è quello giusto. Conoscere le arti marziali contribuisce al buon 70% del successo di un attore di film d’azione.
Io, come molti della mia generazione, sono cresciuto con i film d’azione degli anni ’80 e ’90, col mito di Jean Claude Van Damme e Steven Seagal. Tu in che modo ti sei approcciato al cinema action, da spettatore e da interprete?
Anche io sono cresciuto con quei miti: Sylvester Stallone, Jean-Claude Van Damme in primis. Avevo il poster di Stallone in cameretta dietro al letto, quindi per me avere la sua fisicità era un punto d’arrivo e mi sono buttato in palestra, con i pesi, e piano piano ho cercato di somigliargli il più possibile. Poi, facendo arti marziali, ho preso anche Van Damme come ispirazione e l’ideale di noi giovani di quel periodo era di diventare proprio come loro. Poi un giorno, Ermanno e Gianluca Curti di Minerva Pictures mi chiesero di interpretare il protagonista del film Tradito a morte, perché serviva qualcuno che conoscesse le arti marziali, che sapesse combattere davvero. Il film fu distribuito con Tristar Pictures in home video, fu il mio primo film, era il 1996 e da allora non ho più smesso e faccio solo questo genere di film.
Nella tua filmografia vedo ben 13 titoli da attore, con in arrivo un film anche da regista e sceneggiatore, Iron Fighter. Quale esperienza davanti alla macchina da presa ti ha segnato maggiormente?
I film per me sono come i figli, quando fai un film è il raggiungimento di uno scopo, il punto d’arrivo di un progetto che ti accresce. Sicuramente Iron Fighter per me è stato molto importante, perché l’ho fatto da sceneggiatore, regista e attore quindi ho potuto realizzarlo come meglio credevo. Ma anche Karate Man di Fragasso mi ha segnato perché è autobiografico racconta la mia vita e il problema con il diabete, poi c’è tutta la poesia di Fragasso. Ma anche Rabbia in pugno, con cui sono tornato sul set dopo tanti anni, avevo quasi smesso. Poi c’è stato MMA: Love Never Dies che per me molto è importante perché era il mio primo film internazionale e mi ha dato una grande visibilità. Però Iron Fighter è quello che mi ha coinvolto e preso più di tutti e ho una grandissima aspettativa verso questo film.
All’inizio della tua carriera da attore hai lavorato con Brass, Mingozzi, Ricky Tognazzi. Che ricordi hai dei set di Snack Bar Budapest e Ultrà?
Ho dei ricordi bellissimi, erano gli anni ‘90 e io ero molto giovane. In Snack Bar Budapest, che era il mio primo film, addirittura avevo più di 20 pose con Giancarlo Giannini. Per me è stata un’opportunità grandissima, poi mia madre mi veniva a trovare sul set, lei era giovane e io un ragazzo e avevo uno spirito goliardico. In Ultrà, siamo andati a Torino a girare al Comunale e facemmo una partita proprio lì allo Stadio Comunale tra di noi e dissestammo tutto il campo. Ho dei ricordi bellissimi di quegli anni che non dimenticherò mai.
Ad un certo punto hai iniziato una collaborazione con Stefano Calvagna, che nell’ambiente del cinema romano è piuttosto noto. Con lui hai fatto già tre film. Che mi puoi dire del sodalizio che hai con Calvagna?
Ho cominciato a lavorare con Stefano quando lui stava affrontando un periodo molto brutto e io lo aiutai ad uscirne e lui mi riportò su un set cinematografico con Rabbia in pugno dopo che mi stavo allontanando da questo ambiente Poi ho collaborato con lui in altri due film. In Non escludo il ritorno interpretavo il ruolo del pugile amico di Franco Califano, io poi Califano lo conoscevo realmente quindi è stato motivo di orgoglio interpretare quel ruolo, anche se piccolo ma molto molto importante per me; invece in Storia di un assurdo normale, che è la storia autobiografica di Stefano, ho interpretato me stesso, quello che ho fatto davvero per lui nel suo periodo di detenzione. Per me quel film è stato come un documentario. Comunque Rabbia in pugno mi ha riportato sul set, al fianco di Maurizio Mattioli, poi c’erano le arti marziali e io mi sono divertito moltissimo. Stefano è rimasto nel mio cuore, è un grande amico mio, ci sentiamo spesso e ci diamo dei consigli.
Lo scorso anno è uscito Karate Man di Claudio Fragasso, che personalmente ritengo uno dei migliori registi di cinema d’azione che abbiamo avuto negli anni ‘90 in Italia. Ma Karate Man racconta soprattutto una storia vera, la tua. Mi puoi parlare di questo film e di quanto hai contribuito, oltre ad aver vestito i panni del protagonista?
Karate Man è un film biografico, Rossella Drudi, moglie di Claudio Fragasso e sceneggiatrice, me lo ha cucito addosso, mi ha intervistato e da lì ha scritto la sceneggiatura. Per me è stato un grande onore lavorare con Claudio, che è un vero pioniere dell’action italiano, io avevo già fatto molti provini con lui ma non mi aveva preso mai per i suoi film. Sono davvero molto orgoglioso di aver fatto con lui Karate Man. Adesso il film sta andando forte su Prime Video e al cinema, dove è uscito il 26 maggio, abbiamo avuto critiche buonissime, ore è destinato a un mercato mondiale perché abbiamo una distribuzione di Los Angeles molto importante, la Adler Entertainment, e a brevissimo sarà presentato al mercato internazionale del Festival di Berlino. Il film per me è ovviamente molto importante, parla di me, della mia vita, di come ho risolto il mio problema di salute, di come combattere i problemi rimboccandosi le maniche e montando sul ring per affrontarli. Karate Man è proprio questo: la storia di chi sconfigge i problemi con l’allenamento e la forza di volontà.
Arriviamo ad oggi e all’uscita – un po’ a sorpresa, ti devo dire – di Assassin Club, una produzione statunitense in cui interpreti il ruolo del villain al fianco di Sam Neill, Noomi Rapace, Daniela Melchior e Henry Golding. Come è stato lavorare a questo film e, budget a parte, che differenza c’è tra un set italiano e uno statunitense?
In Assassin Club sono uno dei sei assassini che devono uccidere Henry Golding, mi chiamo Ryder e tra i sei sono l’antagonista più diretto di Golding. Mi sono trovato molto bene, il regista, Camille Delamarre arriva dalla scuola di Luc Besson, quindi è un grande regista d’azione, ho lavorato su un set dove c’erano 300 persone, estremamente professionale, molti di loro statunitensi, per me è stata un’esperienza davvero importante e devo dire che mi sono travato benissimo, sia con il regista che con quel cast fantastico con cui ho avuto a che fare. Poi distribuzione Paramount, un film che arriva in tutto il mondo… insomma, ne vado orgoglioso.
E qui ti faccio una domanda che mi sto tenendo fin dal principio. In Italia, in passato, siamo stati celebri per un cinema molto vario ed esportabile, un cinema di generi in cui l’action non mancava di certo, come si poteva vedere in tanti poliziotteschi degli anni ’70 e nei film con Bud Spencer e Terrence Hill. Poi, a un certo punto, tutto è finito e – a parte rari casi come il contributo dato da Fragasso con Palermo Milano: sola andata o Le ultime 56 ore – si è dovuto aspettare circa 30 anni per ritrovare un po’ di verve di genere nel nostro cinema. Secondo te, cosa è successo a fine anni ’80 e cosa sta accadendo oggi con questo ritorno?
Per tanti anni si sono fatte commedia, sovvenzionate dallo Stato e da produttori che prendevano soldi da terzi, adesso il mercato è diventato mondiale, quindi il solo mercato italiano non dà più la possibilità ai produttori di rientrare nel budget che hanno a disposizione e per questo bisogna allargare i propri orizzonti e tornare a un genere che piaccia a 180 Paesi, che poi sono quelli che comprano i film. Il genere action, nello specifico martial arts, è tra i più visti in tutto il mondo. Io questa cosa la aspettavo da anni, ero sicuro che si sarebbe andati a finire a girare nuovamente cinema d’azione e mi sono preparato molto per rispettare i canoni e poter fare il protagonista di questo genere di film: palestra, allenamenti e arti marziali. Stiamo un po’ tornando agli anni ‘70, ma in maniera diversa perché i poliziotteschi non avevano una distribuzione mondiale, invece oggi i film italiani d’azione escono in Cina, in Giappone, in Africa, in Medio Oriente, ovunque! Questo genere accontenta un po’ l’aspettativa di tutti quanti, dove c’è l’eroe che fa giustizia e riporta tutto a una situazione di normalità contro un villain o un gruppo di criminali. Questa è un po’ la storia comune a tutti gli action americani; noi facciamo questo inserendo anche le arti marziali, per esempio in Iron Fighter usiamo anche le katane come armi di vendetta. Vedrai che tra dieci anni questo genere andrà ancora forte, c’è una grande richiesta ed è in espansione, io mi sono preparato proprio per questo momento storico.
Vista la tua esperienza nel genere action, mi puoi parlare del ruolo dello stunt coordinator nel cinema italiano, quello che un tempo si chiamava gloriosamente “maestro d’armi”?
In un film d’azione il maestro d’armi è fondamentale, le azioni che si svolgono nelle scene devono essere dirette da un maestro d’armi, nel mio caso io sono anche uno stunt coordinator perché essendo un campione di arti marziali so dove mettere la macchina da presa per valorizzare i calci. Anche per questo motivo sto passando alla regia perché in alcuni casi possono crearsi dei problemi. Con Fragasso mi sono trovato molto bene perché lui ha già fatto action, è molto preparato. Ma non è facile trovare un regista italiano che sappia come dirigere scene d’azione, che sappia dove mettere le macchine da presa e il maestro d’armi prende un po’ il ruolo del regista in queste scene, quindi è colui che deve dirigere gli attori in queste determinate scene diventando fondamentale. Un bravo maestro d’armi contribuisce a fare un bel film d’azione.
Infine, ti chiedo se mi puoi dare qualche anticipazione su Iron Fighter, visto che ti vede coinvolto in tripla veste di attore, regista e sceneggiatore.
Sono molto contento di come abbiamo girato Iron Fighter, sono contento della fotografia, del cast internazionale che comprende Danny Quinn, figlio di Anthony, Hal Yamanouchi, Camila Cruz Escobar. Ma sono contento proprio di tutto, dei costumi, delle scenografie, del clima che si è creato sul set e spero che quest’atmosfera si rifletta anche nel risultato finale. Io mi sono ispirato a Quentin Tarantino, che è il mio idolo, quindi è un film molto tarantiniano. Gli effetti speciali sono pratici, li abbiamo realizzati come si faceva negli anni ’90, quindi senza computer grafica e a me sono piaciuti tantissimo e spero che piacciano anche al pubblico, così come tutto il film.
A cura di Roberto Giacomelli
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