Don’t Worry, la recensione
John Callahan era un irriverente saputello che riteneva d’esser stato rovinato per sempre da un incidente d’auto. Perse in maniera permanente l’utilizzo di entrambe le gambe e quando riuscì ad ottenere quello parziale delle braccia, cominciò a creare strisce a fumetti piene di humour nero e estremamente anticonvenzionali.
Ce n’è una – non presente nel film – che rende bene l’idea del personaggio in questione. Un paziente con il didietro di fuori è appoggiato al lettino ospedaliero con la parte anteriore del corpo, mentre il medico di fianco a lui, con entrambi gli arti mancanti, esclama “La mia tecnica per l’esame rettale è differente per via del fatto che sono gay e mi mancano le braccia”.
Morto nel 2010 all’età di 59 anni e largamente dimenticato nonostante le sue vignette fossero state vendute a oltre 200 testate giornalistiche in tutto il mondo, Callahan è diventato il soggetto di Don’t Worry, biopic diretto da Gus Van Sant, incarnato da Joaquin Phoenix, attore non meno controverso dell’artista di Portland. Il titolo, versione monca dell’originale Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot, è il richiamo ad uno sketch che apre l’autobiografia di Callahan del 1989.
In un panorama desertico, un reparto a cavallo con in testa lo sceriffo analizza una sedia a rotelle vuota. Il capo tranquillizza i suoi: “Non vi preoccupate, non farà molta strada a piedi”.
L’attore americano è bravissimo a intercettare questo tono stretto tra autoironia e rabbia repressa, mostrando un irriducibile anticonformista sotto ogni angolazione. Il Callahan sullo schermo è infatti un alcolizzato ribelle e immaturo prima dell’incidente per poi diventare, dopo lo schianto, il sopravvissuto che affronta una riabilitazione senza fine, l’astuto, provocante e cortese uomo in carrozzina e l’artista determinato che stringe una penna nella mano destra mentre la destra lo indirizza sul foglio di carta, creando battute taglienti e caustiche.
Il film esplora la vita del fumettista scegliendo deliberatamente di non seguire l’ordine cronologico, in un susseguirsi di voli apparentemente pindarici che mano a mano mostrano un certa coerenza. La sensazione che ne viene fuori è quella di avere stranamente a che fare con una vita vissuta nel vero senso della parola, non una messa in scena di episodi significativi di una biografia. Proprio per questo motivo, in alcuni momenti Don’t Worry potrebbe essere indigesto e sembrare prolisso. La storia che ci viene raccontata è intrisa della lunga lotta di Callahan contro l’abuso di alcol, accompagnato dal suo sponsor Donny (un sottovalutatissimo Jonah Hill) e un gruppo di alcolisti anonimi, e la sceneggiatura ne usa l’iter riabilitativo per portare avanti il discorso con tutte le sue ripetizioni e ridondanze.
Sarebbe stato forse utile dare più importanza ad un cast di attori non protagonisti particolarmente azzeccato. Jack Black si cuce addosso i panni del guidatore ubriaco che ha effettivamente portato Callahan contro un palo della luce prima e sulla sedia a rotelle poi, sopportando un fardello lungo una vita intera. Interpretando Annu, hostess di una compagnia aerea svedese diventata la compagna di Callahan dopo l’incidente, Rooney Mara riesce a trasmettere un’energia positiva senza diventare un personaggio femminile patetico, pur rimanendo leggermente in disparte.
La sensazione che il film di Van Sant lascia alla fine è quella di un’opera che ha trovato il giusto bilanciamento tra biografia e cinema, rendendo la vita di un uomo realmente protagonista e non una costrizione strutturale su cui installare scene interpretate da attori professionisti. Merce rara nella corsa forsennata al biopic più intrigante, a cui Hollywood si sta sfidando ogni anno.
Andrea De Vinco
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